Intervista a Mario Maldesi

Roma, 8 dicembre 2003

 

 

D.  Puoi parlarmi un po’ di quegli anni? Com’era il teatro? E tu com’eri?

 

      R. In un certo senso il teatro in quegli anni era molto più vivo di quello che è adesso. Ma quello che ricordo con molta esattezza è che eravamo pochi: c’erano pochi teatri, e noi eravamo pochi a volerlo fare, a fare teatro. Ci si conosceva praticamente tutti.

           Il teatro dei Satiri fu inaugurato alla fine degli anni ‘40, con un Amleto fatto da Franco Castellani, dove io facevo Re Claudio…

 

        D. Ma non avete inaugurato il Teatro con Madre Coraggio?

 

        R. Sì, quando è stato rinnovato. La gestione è sempre stata di Castellani,  e Gianni Grifeo da Partanna, un nobile siciliano che credo tutt’ora sia uno dei proprietari.

          Contemporaneamente facevo l’Università e frequentavo il Centro Universitario Teatrale, ero nella compagnia del Teatro Ateneo, così si chiamava. Cominciai a lavorare con loro. Partecipai a vari spettacoli anche abbastanza importanti, come  La Bisbetica domata. Debuttai nel Romanticismo di Rovetta, sostituendo Ferzetti che aveva un impegno cinematografico, nel ruolo di Ceschi,  un bellissimo personaggio. Feci vari lavori, anche abbastanza belli: Gli Innamorati di Goldoni, con Giulietta Masina, La guarnigione incatenata di Alberto Calantuoni… e poi  delle novità italiane molto importanti: Il processo di Roberto Zerboni,  e una novità di Vittorio Calvino con la regia di Giorgio Prosperi. C’erano Marcello Mastroianni, Mario Pisu, c’erano stati grandi attori: Aristide Baghetti, Armando Francioli, Clara Auteri, Wanda Capodaglio, Carlo Ninchi. Poi nel ’52  fui richiamato dal teatro dei Satiri per inserirmi nella Compagnia stabile, con Sergio Tofano.  

 

      D.  C’era già la compagnia?

 

      R. Si formò allora, debuttò con Madre Coraggio, si chiamava La Compagnia degli Spettatori Italiani. Ci sono stato vari anni, sempre con Sergio Tofano, abbiamo fatto tantissimi lavori, con sede  al Teatro delle Arti a Roma. Andammo in tournée per tutta Italia. Erano anni in cui si viveva praticamente in teatro, si frequentavano tutti gli altri teatri. Con Sergio Tofano feci il Barbariccia nel Bonaventura, Knock o il trionfo della medicina (di Jules Romains), tantissimi lavori, e altri che erano quasi d’obbligo: novità italiane per avere delle sovvenzioni ministeriali,  finanziamenti dall’ETI.

           Naturalmente Madre Coraggio è stata una delle cose più importanti, più emozionanti per me, perché era la prima assoluta  di quest’opera di Brecht in Italia.

 

D.  Conoscevi già le sue opere?

 

R. Lo conoscevo naturalmente per averlo letto. Conoscevo Santa Giovanna dei Macelli, ma a teatro l’ho visto dopo il debutto di Madre Coraggio. L’opera da tre soldi di Strehler con Mario Carotenuto.

           Di quegli anni ricordo  le partecipazioni al festival del teatro di Venezia, le commemorazioni a Renato Simoni, grande critico  morto in quegli anni.  Io appunto facevo La vedova di Renato Simoni, con la regia di Anton Giulio Bragaglia. C’era Visconti con La locandiera, con la Morelli; poi c’era Gerard Philip ne Il Cid di Corneille diretto da Jean Vilar.  Sono stati pochi anni ma molto intensi: ho fatto parte della Compagnia Nazionale diretta da Guido Salvini, poi Maria Stuarda con Elena Zareschi diretti da Squarzina.  Ricordo che inaugurammo il locale del teatro Ateneo dell’Università con due lavori importanti, uno si intitolava Il mio cuore è sulle alture, e l’altro era una novità italiana di Stefano Landi, il figlio di Pirandello, dal titolo Qui si insegna a rubare. Teatro Ateneo che fu chiuso perché ci fu la guerra,  ci sono tornato dieci anni dopo! Ricordo la stagione al teatro Greco di Siracusa, dove facemmo Edipo a Colono, con Salvo Randone, Antonio Krast. Debuttava Giorgio Albertazzi, Sbragia. Ricordo La dodicesima notte a Palermo, sempre con la regia di Guido Salvini, Compagnia Teatro Nazionale Italiano, inaugurammo il teatro della Verzura.

 

D. Come mai hai lasciato il teatro?

 

R. Nel frattempo io avevo conosciuto il mondo del doppiaggio. Qualcuno mi aveva chiamato: “ Dai Mario vieni! Si va lì, si dà la voce, ci danno anche dei soldi!”. Naturalmente allora erano piccole società di doppiaggio, che nascevano in quegli anni, tutte dedicate al servizio del cinema italiano. Era un doppiaggio un po’ particolare, non era veramente doppiaggio: era la creazione delle colonne sonore dei film italiani che appena finiti di girare passavano nelle sale di doppiaggio e gli attori principali, quelli importanti, si autodoppiavano;  gli altri venivano doppiati, o perché non sapevano parlare, o perché erano stranieri. Mi ricordo tutti i doppiaggi del cinema italiano che andava in quel periodo, commediole come: Poveri ma belli, Domenica d’agosto, Le signorine dello 04, con Maurizio Arena, Cifariello, Sergio Raimondi. Io doppiavo sempre Raimondi, la mia voce si attaccava benissimo alla sua faccia. Non era un attore, era preso dalla strada e non sapeva parlare, era un classico fusto. Io gli davo la voce spesso in dialetto romanesco. Così conobbi il mondo del doppiaggio, e mi incuriosì molto. Conobbi Fellini, Rosi, Elio Petri.  Bè, Fellini lo conoscevo perché veniva sempre al teatro Ateneo con Giulietta Masina.   Cominciai a interessarmi al lato tecnico, avevo anche delle idee mie di come affrontare questo lavoro in maniera giusta e diversa da com’era stato fatto finora. Cominciai a riscuotere fiducia da parte dei registi: Antonioni, Petri, Rosi. Mi volevano come collaboratore, perché conoscevo tutto il teatro, tutti gli attori, e poi insomma ero abbastanza bravo! Anche dal punto di vista tecnico avevo imparato tutto, mi ero messo di buzzo buono proprio dalla gavetta, alla moviola, alla pellicola, al magnetico. Sapevo fare tutto.

 

D.  Facevi ancora teatro?

 

      R. Sì, facevo teatro e contemporaneamente il doppiaggio. Però poi a un certo punto, mi ricordo che mi chiamò Gianni Santuccio per sostituirlo ne Le streghe di Salem di Visconti e io rifiutai. Non volevo più fare teatro. Ero entrato un po’ in una sorta di crisi, non mi ritrovavo più bene nell’esibirmi come attore, preferivo passare dall’altra parte e dedicarmi al doppiaggio, al servizio degli autori italiani che avevano affidato  a me le loro post- sincronizzazioni. Divenni subito il numero uno, perché avevo la fiducia dei grandi di allora. Cominciò con Le Amiche di Antonioni; poi Tutti a casa di Monicelli, I soliti ignoti, La grande guerra, Comencini, Lattuada. E Visconti: aveva saputo di me e mi chiese di fare Rocco e i suoi fratelli, il primo suo grande film  che ho fatto. Da quella volta non mi ha più abbandonato fino alla morte. Non c’è film suo che io non abbia fatto, mi prenotava mesi prima! Io ero molto gratificato, e anche discretamente pagato. Insomma molto bene! Avevo lavoro continuo, non ero mai fermo, mai mai mai… anzi dovevo rifiutarlo perché spesso si accavallavano i film e io non potevo farli tutti insieme. Ho  tenuto a battesimo Brusati, Nanni Loy, Patroni Griffi, Pasolini con Accattone e gli altri, Bertolucci. Era un continuo, avevo in mano tutto il cinema italiano. E il cinema italiano, in quel momento, era molto prezioso, molto ben pagato e stimato. Poi cominciai col grande cinema straniero: i registi  spesso chiedevano a Fellini, Antonioni, Visconti, a chi potevano affidare i loro film, e loro facevano il mio nome. Così entrai nel doppiaggio vero e proprio. Nel ’64 entrai nella Compagnia Doppiatori Cinematografici diretta da Buoncompagni, Cigoli e Simoneschi, i tre grandi doppiatori dell’epoca. Fecero una grande cena in mio onore. Io portavo tutto il cinema italiano con me, e il cinema italiano era ricchissimo. Il doppiaggio di un film italiano in confronto a uno straniero era cinquanta volte di più come fatturato. Era molto prestigioso fare film di Rossellini, Fellini, Visconti, Antonioni ecc.

      L’uomo da marciapiede, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Il maratoneta, tutti i film di Schlesinger, Lumet, e poi Friedkin, e poi tutti i francesi, Truffeault, Chabrol, Lelouche. E alla fine Kubrick, il più grande. Ero straoccupato  da questo lavoro che non ho più pensato di ritornare al teatro. Volevo fare il regista, ma non avevo il tempo. Avrei dovuto abbandonare il doppiaggio, ma non era possibile, ero preso in una specie di vortice. Sono rimasto ancorato a questo lavoro che ho molto amato. Ma  il cuore e la testa erano sempre nel teatro. Era il mio primo amore, il mio grande primo amore  e tutto sommato lo è tutt’ora. Il teatro è il vero lavoro dell’attore, è la materia prima, dove l’attore si esibisce nella sua integrità. Insomma  è una gran malattia.

 

D. Torniamo a noi: Madre Coraggio…Cosa ricordi degli altri compagni?

 

R.  Ricordo Cesarina Gheraldi, deliziosa attrice, bravissima. Secondo me lo faceva molto bene questo personaggio.

 

D. La Maresa mi ha detto che all’inizio il personaggio di Madre Coraggio fu proposto alla Magnani, lo sapevi?

 

R. L’ho saputo dopo. Certo la Magnani sarebbe stata un evento eccezionale ma evidentemente era occupata o aveva paura, era molto timida e in teatro aveva solo fatto la rivista. Affrontare un testo teatrale così impegnativo, così difficile, l’aveva probabilmente spaventata. In quel momento era sulla cresta dell’onda come attrice di cinema. Tutto sommato avrebbe avuto tutto da perdere e poco da guadagnare. Forse, se glielo avesse proposto Visconti, ecco, si sarebbe sentita protetta, ma un teatrino come quello con un giovane regista, era troppo rischioso.

 

D. Gli altri attori?

 

R. Sergio Tofano era quel gentiluomo meraviglioso, delizioso. Gaetano Verna, anche lui, Giovampietro, amico fraterno… era proprio come una grande famiglia. Mario Milita, Michele Riccardini, Giovanni Dolfini, Nino Dal Fabbro. Tutti amici, compagni, compagni, compagni! Si stava sempre insieme, si viveva insieme. In teatro sai, si vive più con i compagni di teatro che con la propria famiglia. Tante ore al giorno, e poi anche quando si va fuori in tournée,  si vive negli stessi alberghi, si mangia insieme ecc. E’ molto importante  avere dei gruppi affiatati, che si vogliano bene anche dal punto di vista umano.

 

D. Infatti la Maresa mi ha detto che ciò che ha contato di più per la riuscita dello spettacolo era il vostro entusiasmo, l’affiatamento che avevate tra voi…

 

R. Sì, l’entusiasmo, l’affiatamento era tanto. Non c’era febbre a quaranta che ci tratteneva e questo era la sicurezza, la forza e il successo dello spettacolo. Mi ricordo applausi, applausi, applausi sinceri e entusiasti. Tutti quelli vecchi che io incontro che ricordano quello spettacolo, dicono tutti che è un ricordo bellissimo. I teatri erano sempre tutti esauriti, sempre. Con un successo! Alla fine veniva la gente a salutarci nei camerini. 

 

D. La Maresa mi ha detto che a Bologna addirittura firmavate gli autografi!

 

R. Sì! C’era un entusiasmo incredibile. Un po’ perché era la prima volta in Italia che si faceva Madre Coraggio. Erano gli anni di grande fermento intorno al teatro brechtiano, era un teatro nuovo.

 

D. Ritornando agli attori: Tofano, Maresa, Verna, la Lissiak, la Zanoli?

 

R. Tofano era grande. La sua signorilità, la semplicità, la naturalezza, erano proverbiali. Era un grande maestro, un grande tipo De Sica, come genere di attore. Con una naturalezza,  una verità, e una classe di attore eccezionale.

           La Maresa era bellissima, bellissima e brava. Brava! Faceva questa muta  con una verità e  una sincerità commovente. Il pubblico si commuoveva molto di fronte a questa creatura andicappata che  emanava un calore umano eccezionale. Questa famiglia, questa madre con i suoi tre figli… Schweizerkas era un povero di spirito, un sempliciotto, che per difendere la cassa del reggimento si fa ammazzare. Eilif invece era il maschio sicuro di sé, ardimentoso, coraggioso, fatto da Renzo Giovampietro molto bene. Erano attori che emanavano forza, avevano un carisma. Quando entravamo in scena, nella voce, nel modo di parlare, nella presenza fisica, eravamo belli tutti, quando entravamo in scena…capito no?! Eravamo belli, belli, belli! Anch’io ero abbastanza notevole!

           Gaetano Verna era un attore sanguigno, col fisico robusto, grosso. Aveva una voce bellissima, nel cinema dava la voce a Spencer Tracy, voce fascinosissima, conosciuta. E bravo, semplice, vero, sulla linea di Tofano anche lui. La Lissiak era una donna bellissima, con una faccia da femmina sicura di sé, vincente sempre. Come attrice non è che fosse molto brava, però con la sua presenza, con il suo fisico… era talmente in parte come tipo che non doveva praticamente fare niente di speciale. Era lei, questa Yvette, era lei. La distribuzione del ruolo era esatta quindi era vincente. Il pubblico quando entrava in scena era subito rapito. Alta, bella, sembrava una statua, con un corpo meraviglioso.

 

D. Poi c’era la Zanoli…?

 

R. Ah, Maria Zanoli, dolcissimo personaggio, dolcissima persona, buona, buona, buona! Era una caratterista preziosa. Anche con lei abbiamo fatto tante cose insieme. Era una persona modesta, brava, professionista seria. Anche lei spiritosa. Maria, ricordo carissimo!

 

D. Nella seconda edizione c’era Ave Ninchi nel ruolo di Madre Coraggio, lei com’era?

 

R. Certo, con lei siamo stati a Bologna, in tournée l’anno dopo. Non ricordo perché, credo che la Gheraldi avesse degli impegni. Cesarina era una bravissima attrice, ricordo con grande amore le  sue partecipazioni al doppiaggio. Cesarina Gheraldi io la scelsi per fare la madre in Rocco e i suoi fratelli, la Katina Paxinu. Parla con accento lucano. La Gheraldi era un’attrice di Milano, però aveva un orecchio stupendo e un temperamento meraviglioso. Per avere un’idea di come poteva essere Madre Coraggio. La chiamai otto o nove anni dopo lo spettacolo. Fu un grande successo, devo dire che il suo doppiaggio di Katina Paxinu è eccezionale. Anche la madre di Rocco e i suoi fratelli era una madre coraggio. La chiamai e dissi a Visconti: “ La Gheraldi è perfetta!”, “Ma è milanese!?” , “ Ma ha un grande orecchio, gli mettiamo vicino un consulente lucano, e lei lo rifà uguale, perfettamente credibile.”.

      Tornando a Ave Ninchi, lei era festosa, era sempre allegra, sorridente, non aveva il temperamento drammatico della Gheraldi. Era un’attrice brillante.

      Con Cesarina Gheraldi abbiamo fatto altri lavori dopo quell’anno, con Sergio Tofano, abbiamo fatto La lettera scarlatta.

      L’anno successivo nel ‘53 passammo al teatro delle Arti, che era proprietà del marito della Ave Ninchi. Lei subentrò a Cesarina Gheraldi, che lavorava tanto, era un’attrice molto richiesta , molto brava. Ave Ninchi, con cui facemmo anche altri lavori era un’attrice brillante. La differenza tra le due attrici la puoi capire con l’uso che io ne ho fatto nel doppiaggio, forse può essere interessante. Come ti ho già detto Cesarina fece Katina Paxinu. Ad Ave Ninchi feci fare un’altra cosa completamente diversa che rispecchia perfettamente il suo carattere: la madre di Titta nel film Amarcord. L’ho chiamata per doppiare Pupella Maggio, bisognava doppiarla in romagnolo e io chiamai la Ninchi. Lei era spiritosa,ironica. E quindi la sua Madre Coraggio era tutto un altro tipo, ovviamente legato al carattere dell’attrice.

 

 

D.  Com’è stato affrontare il personaggio di Schweizerkas?

 

R. Mi era abbastanza congeniale, perché era un carattere e onestamente devo dire che io facevo molto bene i caratteri, anche se ero un attor giovane, sempre con un carattere, cioè un appiglio…

 

D. Il fatto di essere stupido?

 

R. Sì. Mai il bello, il playboy, ecco quello non riuscivo, non faceva parte di me. Invece Schweizerkas e anche altri personaggi che ho fatto avevano sempre un appiglio di carattere, o perché avevano paura, o erano pazzi, o perché… insomma, non dico anormale, ma con qualche caratteristica che mi permetteva di creare un tipo

 

D. Ti ricordi un po’ come avete affrontato il lavoro?

 

R. Non ho dei ricordi molto chiari, mi ricordo che provavamo tanto, tanto, con tanta gioia, dalla mattina alla sera, il palcoscenico girevole, i cambi, le canzoni…

 

D. Il teatro era già a posto quando avete iniziato le prove?

 

R.  Sì, era tutto ristrutturato, il palcoscenico era girevole, i camerini erano rifatti, insomma… avevano impiegato parecchi soldi.

 

D. Il teatro epico, Brecht era già una novità, il fatto di seguire un modello, i cartelli, mi puoi dire qualcosa?

 

R. Questo interessava più che altro  la regia. Noi come attori seguivamo il testo , e facevamo il personaggio, come avremmo fatto Moliere, Pirandello, Shakespeare. Poi c’erano la luce, i costumi, e il resto. Certo anche il modo di recitare, di portare la voce, era diverso dalla commedia borghese, dai lavori tradizionali. Prediligendo proprio la comunicazione dei pensieri, freddi, piuttosto che dei sentimenti.

 

D. Quasi in terza persona?

 

R. Sì, quasi in terza persona, come è il teatro epico di Brecht, naturalmente. Si cercava di farlo, poi se ci siamo riusciti o meno, o abbiamo mediato all’italiana un po’ le due cose questo forse sì, adesso non è che ricordo esattamente.

 

D. Come è stato lavorare con Lucignani?

 

R. Luciano era, è un uomo molto intelligente. Credo che fosse la sua prima vera esperienza di regia, aveva fatto l’Accademia d’Arte drammatica, era un regista diplomato. Però si era dedicato di più alla scrittura, alla critica più che all’attività di regia. Aveva i suoi collaboratori, e lo spettacolo andò in scena molto bene, senza problemi.

 

D. I costumi di Guttuso?

 

R. I costumi di Guttuso erano deliziosi, perfetti. Io ero stato obbligato ad usare una parrucca bionda, che mi fu fatta fare da Rocchetti, era il parrucchiere teatrale di allora. Ricordava un po’ il San Giovannino, questa parrucca piena di riccioli biondi, che era bellina e caratterizzava il personaggio, molto ingenuo, povero di spirito com’era Schweizerkas.

 

D. Naturalmente l’hai conosciuto…

 

R. Guttuso era un uomo intelligente, simpatico. Era il Partito Comunista, in cui c’era anche  Lucignani. Noi facevamo semplicemente lo spettacolo, e  il nome di Guttuso era più che giusto per una cosa del genere. Poi Brecht era di sinistra! 

 

D. Eri contento alla fine?

 

R. Io ero felice, contento è dir poco. Immagina cosa poteva essere per un ragazzo giovane che cominciava, essere messo in un’operazione così grossa, importante, anche a livello culturale, insomma era un avvenimento, un vero evento nazionale. Ecco, voglio dire, avrebbe avuto un esito importante se avessi voluto continuare a fare l’attore.

 

D. La Maresa mi diceva che eri bravissimo…

 

R. Sì, ero bravo! Ero bravo perché ero molto credibile sempre, ero il personaggio, ero Schweizerkas. Quello che dico sempre agli attori: bisogna essere credibili, ci dovete credere profondamente, dentro, e se tu ci credi tanto ci crede anche il pubblico.

 

D. Il fatto che il teatro era piccolo, cosa ne pensi?

 

R. Ma quello sai… Sì certo, adesso, col senno di poi, si può dire che forse lo spazio non era adeguato a una cosa così importante e imponente come Madre Coraggio, ma quello avevamo e quello abbiamo usato.

 

D. Che effetto ti fa riparlarne oggi?

 

      R. Mi fa piacere. E’ come andare a ripescare il profondo: riguardando foto, locandine… Come ricordare un sogno, una cosa così lontana, bella, gratificante, per cui uno è contento, no? Un’esperienza che mi ha dato tanto, proprio dal punto di vista anche morale, professionale, mi ha arricchito. E’ stata un’esperienza meravigliosa, me la ricorderò sempre, finché campo! E’ chiaro, non è che faccio un grande sforzo nell’ avere un sentimento piacevole ricordando un evento così bello!

 

      D. Hai mai pensato di tornare in teatro?

 

      R. Sì, ho pensato. Ho paura perché il teatro è difficile, non si può abbandonare. Devi riprendere, e chissà se torni ad essere fisicamente a posto per farlo, il fiato, la voce. Io ce l’avevo, ed ero anche molto stimato per la qualità della voce, la dizione. Ci vuole tempo, sì forse… un personaggio adatto a me come sono oggi.. Però dovrei assolutamente studiare, molto, rimettere a posto quelli che sono i ferri del mestiere: la voce, la dizione, la gestualità. Naturalmente se non li usi li perdi. Come un atleta che smette di fare sport, non può pretendere di ritornare e di essere com’era quando ha abbandonato. Però, così come idea mi piacerebbe. Però tra il pensare e il fare c’è una bella differenza!

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